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Appello per l’italianistica in Svizzera Versione stampabile

Italianistica, Osservatorio

[Aggiornamento 20 gennaio 2005]

Giancarlo Dillena, Plurilinguismo e italiano: un problema svizzero, “Corriere del Ticino”, 13 gennaio 2005, versione online http://www.cdt.ch/interna.asp?idarticolo=58717

Cattedre di italianistica soppresse prima al Politecnico di Zurigo e poi all’Università di Neuchâtel; giornali ticinesi distribuiti sempre peggio dalla posta (o semplicemente non distribuiti in tempo) oltre San Gottardo; ombre di ridimensionamento che planano sempre più insistenti sulla RTSI. Sono segnali oltremodo inquietanti per il futuro della componente italofona della Svizzera. Ma lo sono altrettanto per la Svizzera nel suo insieme, poiché proprio il riconosciuto plurilinguismo ne costituisce uno dei pilastri fondamentali. Senza di esso, viene da chiedersi, che senso potrebbe ancora avere quel modello peculiare e dimostratosi storicamente vincente che è la «Willensnation» elvetica? È una domanda che si debbono porre tutti, seriamente e urgentemente, in questo Paese.

Il progressivo indebolimento della posizione dell’italiano nel contesto nazionale è legato, evidentemente, a cambiamenti di natura sociale ed economica, contro i quali sarebbe assurdo pretendere di combattere una strenua quanto vana battaglia di retroguardia. Pensiamo innanzitutto all’affermarsi dell’inglese quale lingua franca. Ma anche all’emergere sulla scena nazionale di consistenti comunità di immigrati recenti, portatori di lingue e culture diverse (in alcuni casi vicine a superare per peso numerico quello degli italofoni). Ma un conto è considerare con attenzione questi fenomeni e cercare di affrontarli attraverso un intelligente adeguamento delle strutture portanti del plurilinguismo elvetico. Un conto è subirli passivamente o limitarsi a risposte generiche e desolanti nel loro qualunquismo (come ad esempio certe ipotesi di «cattedre di cosmopolitismo»). Questo vorrebbe dire non solo accettare, ma favorire il naufragio dei complessi ma essenziali equilibri della democrazia elvetica nel magma di un «melting pot» senza arte né parte.

In questo senso la posizione dell’italiano quale lingua nazionale è un tema importante, che si ricollega direttamente al destino dei supporti che sostanziano tale statuto: dalle cattedre universitarie alla possibilità concreta per la stampa e la radiotelevisione italofone di far udire la loro voce. Porlo in termini di rivendicazione a tutela di una minoranza minacciata sarebbe sbagliato e fuorviante per tutti. Occorre al contrario fare in modo che il dibattito si allarghi, inducendo innanzitutto le altre comunità linguistiche a interrogarsi su una tendenza generale che oggi colpisce l’italianità, ma tra non molto potrebbe avere pesanti ricadute anche per loro, in quanto svizzeri. E non pensiamo solo ai romandi. Poiché il problema – ancora una volta – va ben oltre la questione dei rapporti maggioranza-minoranze.

Il plurilinguismo costituisce in effetti un capitale prezioso, anche dal profilo economico. Un argomento, questo, difficile da far comprendere a quegli ambienti in cui sembra imperare oggi una mentalità spicciola e orientata esclusivamente al beneficio a breve termine, secondo la quale un inglese sommario – che di fatto è una caricatura della lingua di Shakespeare – basta e avanza, accanto al dialetto locale. È un visione grezza e ignorante del ruolo della lingua nella comprensione, formulazione e comunicazione delle idee, riflesso a sua volta di una visione del mondo non solo riduttivamente utilitaristica, ma anche pericolosamente miope. Rischia infatti di essere fortemente penalizzante soprattutto per un piccolo paese che ha come principale «atout» (anche economico) le capacità dei propri abitanti. In questo senso un plurilinguismo vero, coltivato con realismo ma anche con convinzione e serietà, rappresenta una carta importante, da giocare con intelligenza.

Poiché è il presupposto di una migliore e più sofisticata comprensione del mondo (che rimane una realtà complessa e sfumata, a dispetto di tutte le semplificazioni). Ma non solo: finisce col diventare un valore aggiunto rilevante, in quanto permette un rapporto più diretto con interlocutori (e clienti) diversi. Anche e soprattutto in un contesto di globalizzazione. Il richiamo alla necessità di chinarsi seriamente e sollecitamente sul problema non va confuso, sia ben chiaro, con un approccio catastrofista. Per certi versi, anzi, le condizioni generali di salute del plurilinguismo e dell’italiano in particolare possono apparire oggi migliori rispetto ai tempi in cui a certi vincoli formali (ad esempio nella traduzione dei testi ufficiali) non corrispondeva poi nella pratica quotidiana una altrettanto diffusa capacità e volontà di comunicare fra comunità linguisticamente diverse. Così come vi sono pregevoli iniziative – ad esempio il «Dizionario toponomastico dei comuni svizzeri», che presentiamo oggi nelle pagine culturali – che contribuiscono significativamente a rafforzare il legame con il territorio proprio nella sua dimensione linguistica.

Ma proprio alla luce di tutto questo è quanto mai necessario che le questioni legate al plurilinguismo vengano affrontate in modo approfondito e organico, evitando di costruire da una parte mentre si demolisce dall’altra. Così facendo è in effetti reale il rischio di correre poi a chiudere la porta della stalla quando oramai i buoi sono da tempo fuggiti.

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